
Cominciamo da Francesca, oggi ai domiciliari. Non ne butteremo l'esistenza in pasto al web, non vi racconteremo di lei. Non crediamo che ci sia bisogno di sottrarla al discredito raccontandone la bellezza. Non vogliamo metterci sul piano dei diffamatori, degli accusatori e soprattutto non lo faremo battagliando sull'esistenza di una nostra compagna. Vorremo invece provare a ragionare su un dispositivo politico e mediatico di colpevolizzazione diffusa che ci sembra caratterizzare le modalità di gestione del conflitto no tav da parte dei poteri forti e degli interessi che essi rappresentano.
Un dispositivo, per come lo intendiamo qui, è uno schema di rappresentazione, un modo di raccontare funzionale a un obbiettivo. In questo caso l'obiettivo è produrre un alone di colpevolezza a priori, annacquare fatti e ragioni, spostando il baricentro della questione. Attraverso modalità di narrazione ben definite, infatti, si cerca di legittimare ciò che non sarebbe legittimo nella cultura giuridica democratica: un'imputazione dell'essere anziché del fare. Nel nostro ordinamento le norme dovrebbero regolare azioni e non modi di essere. Quello a cui invece assistiamo negli attacchi agli esponenti notav è un tentativo di rendere reato “l'essere notav” in quanto tale: punire l'essere e non il fare.