“Nella Resistenza la donna fu presente ovunque:
sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso
della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa.
Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione
a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo
movimento, costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile,
il tessuto sotterraneo della guerra partigiana”
(Ada Gobetti)
Spesso si parla delle donne partigiane solo come “staffette”, considerandole figure subalterne che hanno prestato aiuto e “assistenza secondaria” rispetto a quella maschile. Questo tentativo di escludere le donne dalle vicende della Resistenza non rispecchia la realtà storica, bensì un modello politico, culturale e sociale non ancora superato.
“Nei mesi successivi alla Liberazione hanno subito riconosciuto i gradi del partigiano al vicario e all’avvocato C.: a me niente. Ho chiesto spiegazioni a un compagno dell’ANPI. “Ma tu sei una donna!” – mi ha risposto. Invece ero l’unica a cui quel titolo poteva davvero servire. Io vivevo solo del mio lavoro e avevo bisogno di quel riconoscimento. I gradi (tenente partigiano) li ho voluti per giustizia, ma non ho preso il pacco sussidio che davano e comunque i soldi li ho lasciati tutti all’ANPI.” (dalla testimonianza dell’ostetrica Maria Rovano, nome di battaglia “Camilla”, partigiana a Barge, CN).
In generale, si tendeva e si tende ad esprimere una sorta di fastidio di fronte a soggetti che rivendicano tempi e spazi propri. Quest’atteggiamento lo riscontriamo anche oggi. Per questo è importante, in occasione della giornata del 25 aprile, rivendicare il ruolo attivo e trasversale delle donne nelle lotte. Mai passive, mai mute. Inadattabili e forti. Ora e sempre Resistenza!
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