Il lavoro per come l’ho conosciuto io – che ho fatto la classica gavetta di qualunque studente fuori sede: baby sitter, cameriera, operatrice call center… - è una rapina a mano armata del proprio tempo e delle proprie ambizioni. Lo dico da un doppio posizionamento: come attivista politica che lotta contro la precarietà generazionale cui siamo tutti sottoposti, e come soggetto reale che questa condizione la vive sulla propria pelle. Ovviamente i due aspetti sono strettamente collegati tra loro, e aprono una ambivalenza insanabile ma virtuosa che sta attraversando ogni fase della mia vita.
Sotto ricatto e senza garanzie si accetta qualsiasi condizione al ribasso, e il ricatto è anche quel senso di colpa e lo stigma sociale che ti colpiscono se non riesci a trovare una minima entrata per sbarcare il lunario ed essere “indipendente”. Ma la precarietà è una condizione ontologica. Le competenze e le capacità relazionali che ti vengono richieste per stare a galla in questi ambienti (disponibilità, coinvolgimento emotivo, cura etc) fanno parte di una sfera privata che ho sempre cercato di proteggere, fino a quando mi sono vista costretta a metterla sul tavolo della contrattazione per mantenere il posto precario e spesso in nero (quindi senza alcuna tutela). Ho vissuto con forte disagio questa dimensione di (s)vendita di me, soprattutto quando ho lavorato in un call centre: lì la mia facoltà comunicativa veniva immediatamente messa a produzione ed era come se venissi espropriata di una parte profondamente intima della mia persona. Le mie parole servivano per convincere qualcuno a comprare qualcosa, ma quel vettore – la parola – era lo stesso che usavo poi per comunicare al di fuori della mia postazione, nelle relazioni amicali, nelle attività politiche, col mio compagno. Per giorni sono rimasta muta. Non riuscivo a riappropriarmi di quella parte di me stessa senza sentirmi schizofrenica. Ed ero perfettamente consapevole del meccanismo in cui ero entrata: la mia vita era stata completamente messa a produzione.
Poi ho deciso di seguire il mio desiderio, che era quello di fare ricerca sociale: adesso sto nel limbo del dottorato, ho uno stipendio che si chiama borsa, il che è relativamente mortificante, oltre al fatto che le prospettive di dare continuità al mio progetto sono poche, a maggior ragione adesso che la riforma Gelmini è stata approvata. Quindi diciamo che sono punto e a capo. Anche qui il compromesso con me stessa è un esercizio quotidiano, ma in questo caso ha a che fare direttamente con la materia e l’approccio della mia ricerca. Quando fai ricerca sui conflitti, sulle contraddizioni, sulle rappresentazioni mistificanti della realtà sociale trovi sempre degli ostacoli. Quando il lavoro di ricerca è parte integrante della tua vita, e non potrebbe essere altrimenti, perché usi gli stessi strumenti per tradurre quello che studi in pratiche trasformative della realtà, molto spesso gli ostacoli diventano veri e propri check point. Quando lo stesso luogo di lavoro – l’università - è il terreno di battaglia su cui hai scelto di lottare, allora è guerra aperta.
Soprattutto se l’ambiente di lavoro è un sistema di poteri radicati che fa della trasmissione del sapere un laboratorio di riproduzione pacificata dell’esistente. Se vuoi sopravvivere devi imparare a galleggiare. Questo significa dover accettare di lavorare gratis come cultrice per mantenere ufficialmente un piede nell’accademia, significa accettare porzioni di ricerca senza avere chiaro dove andranno a finire e come verranno usate, significa rinunciare a volte a dire o scrivere quello che si pensa veramente. Le notti insonni non si contano. Ma il senso di colpa stavolta è endogeno.
Poi ho deciso di seguire il mio desiderio, che era quello di fare ricerca sociale: adesso sto nel limbo del dottorato, ho uno stipendio che si chiama borsa, il che è relativamente mortificante, oltre al fatto che le prospettive di dare continuità al mio progetto sono poche, a maggior ragione adesso che la riforma Gelmini è stata approvata. Quindi diciamo che sono punto e a capo. Anche qui il compromesso con me stessa è un esercizio quotidiano, ma in questo caso ha a che fare direttamente con la materia e l’approccio della mia ricerca. Quando fai ricerca sui conflitti, sulle contraddizioni, sulle rappresentazioni mistificanti della realtà sociale trovi sempre degli ostacoli. Quando il lavoro di ricerca è parte integrante della tua vita, e non potrebbe essere altrimenti, perché usi gli stessi strumenti per tradurre quello che studi in pratiche trasformative della realtà, molto spesso gli ostacoli diventano veri e propri check point. Quando lo stesso luogo di lavoro – l’università - è il terreno di battaglia su cui hai scelto di lottare, allora è guerra aperta.
Soprattutto se l’ambiente di lavoro è un sistema di poteri radicati che fa della trasmissione del sapere un laboratorio di riproduzione pacificata dell’esistente. Se vuoi sopravvivere devi imparare a galleggiare. Questo significa dover accettare di lavorare gratis come cultrice per mantenere ufficialmente un piede nell’accademia, significa accettare porzioni di ricerca senza avere chiaro dove andranno a finire e come verranno usate, significa rinunciare a volte a dire o scrivere quello che si pensa veramente. Le notti insonni non si contano. Ma il senso di colpa stavolta è endogeno.
Contributo del Collettivo Anillo De Fuego (Palermo)
Precarietà. Il futuro è incerto,instabile, critico così tanto che ti fa paura. Il padrone di casa bussa ogni primo del mese, la bolletta dell'enel arriva puntualmente ogni 15 del mese. Condominio, gas, acqua, tutto è da pagare e tu non sai come fare. L'università: le tasse universitarie sono da pagare, e se non arrivi a pagarle entro i termini previsti, c'è la mora, da pagare, i libri di testo “consigliati” dal professore sono da pagare,i mezzi di trasporto definiti “pubblici” sono da pagare, la mensa è da pagare. La spesa: giri tutti i supermercati della zona a caccia delle offerte: yogurt a 50 cent, cereali integrali a soli 1,99cent, risotto pronto a soli 0,89 cent. E come fai? Inizia allora la ricerca costante e accanita del lavoro che ti permette di ricoprire i “buchi”: e così compri il giornale degli annunci, vaghi per la città senza una meta precisa ma con un obiettivo certo, inizi a consultare amici, parenti,colleghi di università,vicini di casa, chiedendo se dove lavorano hanno un posto libero. E poi arriva il lavoro. Volantinaggio: circa 3 kg di dépliant da distribuire porta a porta, da posizionare sui vetri delle auto, da consegnare a gente che trovi per la strada che ti mandano a quel paese.6 ore del tuo tempo costa al padrone solo 20 euro. Call center: operatrice outbound o inbound poco importa la sostanza è sempre quella: 8 ore seduta su una sedia scomodissima,gli occhi puntati su un computer,cuffie da indossare, pochissime e rare occasioni di incontro e confronto con i tuoi colleghi. Spesso se non sempre si guadagna a provvigione, ossia sono quasi nulle le possibilità di guadagnare anche solo 10 euro. Servizio ai tavoli in un pub: avanti e indietro continuo e snervante, pinte di birra e arachidi da portare ai tavoli, togliere le bottiglie vuote, pulire i tavoli, sorridere, quando invece non vorresti fare altro che bestemmiare, per avere anche qualche spicciolo in più (per le sigarette). E quando hai un po' di tempo libero dal lavoro,dallo stress e dall'ansia, non ti resta che la taverna del Ballarò: due super Tennent's,un paio Jagermeister, un panino con le panelle, tre lucky strike morbide rosse, chiacchierare,discutere, scherzare con gente come me. Precari come me!
Simona.
Simona.
Ho 23 anni e' sono una studentessa precaria !
Vivo da circa 5 anni a Palermo dove frequento l'accademia di belle arti .
Per mantenermi ho cambiato svariati lavori da baby sitter, call center,barista,assistenza a gli anziani, commessa ecc ecc, avvolte dimenticando cosa realmente volevo fare da grande ,quali erano i miei sogni il mio punto di partenza .
Oggi lavoro in un bar per 20 euro al giorno ,non posso permettermi distrazioni, perché le bollette l'affitto le tasse all'università che aumentano ogni anno sono le prime cose a cui pensare !
Rifletto ogni istante sul mio futuro , su cosa farò ,se mai potrò avverare i miei sogni ,questo stato di ansia mi assilla, perché vivere alla giornata? perché non posso dedicarmi a quello che amo fare?
Ma non mi scoraggio, non resto impassibile ,non mi faccio scorrere tutto addosso . Si sono incazzata per il mio stato ma questa rabbia la riverso nella lotta che quotidianamente intraprendo!
Claudia.
Per mantenermi ho cambiato svariati lavori da baby sitter, call center,barista,assistenza a gli anziani, commessa ecc ecc, avvolte dimenticando cosa realmente volevo fare da grande ,quali erano i miei sogni il mio punto di partenza .
Oggi lavoro in un bar per 20 euro al giorno ,non posso permettermi distrazioni, perché le bollette l'affitto le tasse all'università che aumentano ogni anno sono le prime cose a cui pensare !
Rifletto ogni istante sul mio futuro , su cosa farò ,se mai potrò avverare i miei sogni ,questo stato di ansia mi assilla, perché vivere alla giornata? perché non posso dedicarmi a quello che amo fare?
Ma non mi scoraggio, non resto impassibile ,non mi faccio scorrere tutto addosso . Si sono incazzata per il mio stato ma questa rabbia la riverso nella lotta che quotidianamente intraprendo!
Claudia.
Mi chiamo Giuliana, ho 25 anni e da due anni circa faccio la segretaria in un Hotel con un contratto a progetto strappato dopo più di un anno di lavoro in nero. Pare che sia un lavoro da non farsi scappare, ma io non amo il lavoro d’ufficio. Mi piace camminare, osservare, sperimentare, non avrei mai pensato a questo per me. Comunque il lavoro è lavoro: è comunque sfruttamento sia che ti permetta di viaggiare, studiare o che ti costringa ore davanti ad un computer seduta su una sedia. Ho fatto la cameriera, la volantinatrice, la baby sitter,la telefonista in un call-center e la rappresentante. E così sono passati anni a cercare il meno peggio, a lasciare un lavoro per un altro che ti sembra migliore, fino ad accorgerti che sono tutti uguali, tristi, precari.
Dimenticavo…..nel luglio scorso mi sono laureata in Scienze Geologiche, e a novembre ho superato il concorso per un dottorato di ricerca senza borsa.
Nonostante molti mi ripetessero che era un’occasione da sfruttare , assolutamente da non lasciarsi scappare, non avrei mai lavorato gratis per nessuno. Quindi, il mio ormai maturo sentimento di rifiuto del lavoro, a maggior ragione se completamente gratuito,e il mio bisogno di reddito mi hanno spinto a rifiutare.
Non è tanto l’aver studiato tanti anni e non riuscire a trovare un impiego che si addica al mio titolo di studio che mi fa incazzare, quanto il furto costante del mio tempo nel presente e nel futuro. Il fatto di non riuscire a sapere come riuscirò a sopravvivere fra un mese mi fa percepire la condizione di precarietà in cui sono immersa fino al collo e che a volte mi da la sensazione di soffocare.
Però vivo sempre la mia vita da precaria con rabbia, e quando mi dicono che dovrei cercare un lavoro che mi gratifichi, io rispondo che ciò che mi fa stare bene è solo mio e che non ho nessuna intenzione di metterlo a profitto di un padrone.
Giuliana.
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