Il Tribunale Amministrativo Regionale ha recentemente respinto il secondo ricorso presentato contro la cosiddetta delibera Ferrero. Il portato politico della delibera è stato sottolineato da più parti e la sua realizzazione contestata da una soggettività politica eterogenea ricomposta dalla comune determinazione a difendere il principio di autodeterminazione delle donne. Per una disamina della delibera, per una ricognizione del suo percorso e dei momenti di lotta che vi si oppongono si rimanda ad articoli precedenti e link.
In questa sede si vuole focalizzare l'attenzione sulla motivazione addotta per il respingimento del ricorso. Il ragionamento esibito si regge su un'argomentazione che si può esplicitare in tre semplici passaggi, due premesse e una conclusione: 1) la delibera riguarda donne gravide; 2) le donne non gravide non sono interessate dalla delibera; 3) le donne non gravide non hanno interesse a ricorrere. L'argomento, a quanto pare, possiede una sua plausibilità nel ragionamento giuridico che, tuttavia, si lascia ai tecnici del mestiere il compito di valutare ed eventualmente criticare. La validità logica di un simile argomento, invece, pare piuttosto labile, quanto meno se si considera che lo stato di gravidanza è uno stato transitorio ed è quindi difficile stabilire se una donna che, oggi non è gravida ma potrebbe esserlo prima o poi, abbia o meno il diritto di essere inclusa nella categoria delle donne che hanno interesse a ricorrere. Tuttavia, anche questi ragionamenti (rapidamente abbozzati) non colgono il nodo della questione in quanto la fallacia dell'argomento è di natura politica.
Sostenere che una donna non incinta non abbia interesse a ricorrere contro un provvedimento che riguarda donne incinte, in linea di principio, equivarrebbe a sostenere che: una famiglia il cui figlio non sia studente universitario (che il figlio lo diventi o meno) non ha interesse a garantire l'esistenza di un'università di qualità; oppure che: chi non è pensionato non ha interesse a difendere i diritti del lavoro; oppure che: chi non è un criminale non ha interesse a difendere il garantismo penale e così via per simili paradossi. La natura delle norme e dei diritti, al contrario, consiste proprio nell'inclusione dei soggetti nella figura astratta del cittadino. Che questa astrazione sia un'operazione ideologica è noto, o che – per dirla in una battuta – la legge non è uguale per tutti è una considerazione che appartiene alla sfera dell'ovvio. Non è, infatti, a questo livello che la motivazione del tar risulta interessante. Lo diviene, invece, dove mostra che di fatto la donna non viene assimilata alla figura del cittadino, ovvero che per essa il confine tra esclusione e inclusione nella cittadinanza è sempre labile. Sostenere che una donna non ha diritto di ricorrere contro un provvedimento che riguarda donne incinte se non è incinta significa costruire un'eccezione nella normalità del paradigma giuridico, che – in ultima analisi – rivela l'eccezionalità della posizione del soggetto coinvolto.
In questo caso, l'eccezione funziona come dispositivo di espulsione della donna dalla polis e, come ogni dispositivo si risolve in un'ambiguità violenta. La delibera infatti tratta la maternità come un affare pubblico, qualcosa su cui è giusto e doveroso legiferare, ma se le donne prendono pubblicamente parola sulla maternità le si riconduce nell'isolamento del privato (sostenere che solo una donna incinta avrebbe legittimo interesse a ricorrere equivale a ri-privatizzare la maternità). A questo livello si inserisce la questione dell'auto-derminazione che, appunto, è un affare pubblico e politico. La precisazione è doverosa per sgomberare il campo da un'eventuale ed equivoca sovrapposizione tra il concetto di auto-determinazione e un concetto di libertà negativa nel senso della tradizione liberare. La libertà da interferenze esterne può essere una condizione per la libertà di auto-determinarsi, ma non risolve la questione; forse è una condizione necessaria, ma sicuramente non sufficiente. Fuori di metafora: la battaglia contro la delibera Ferrero non si risolve in una campagna di laicità, non ingerenza, o simili corollari, ma tocca nel vivo la relazione tra le donne e la cittadinanza.
Una donna che non possiede il proprio corpo, a cui è negato di possederlo, è esclusa dalla cittadinanza. Il tema del piacere femminile e quello della maternità sono, in questo senso, le due facce di una stessa medaglia o – per meglio dire – i due fronti di una stessa battaglia. L'espropriazione della facoltà di un autonomo conferimento di senso all'uno (il piacere) e all'altra (la maternità) coincide con la negazione dell'auto-determinazione che, in ultima analisi, sta alla base del processo di soggettivazione. Non è un caso che proprio sui terreni del piacere e della maternità si cerchi di sottrarre alle donne la parola per consegnarla a dispositivi di violenza semiotica che, in sua vece, ne determinino a priori il senso e lo spettro di possibilità.
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