Nel processo di torsione, in parte di
svuotamento, dei ruoli e delle strutture della politica istituzionale in Italia
emergono i lineamenti di una crisi di rappresentatività complessa, contraddittoria, per certi versi imprevedibile. Ciò che colpisce, all’epoca di
un governo esplicitamente fondato, addirittura legittimato, dalla sospensione
dell’istituto della rappresentanza, è il sempre più frequente ricorso alla
costruzione di nuove rappresentatività non istituzionali o non convenzionali
che performino consenso verso le parti politiche in campo: dal cartello
mediatico e partitico riunitosi a sostegno del governo Monti fino ad arrivare a
soggetti sociali strumentalizzati o costruiti ad hoc nel disperato tentativo di
attribuirsi una qualche legittimazione dal basso. Tutt* ricordiamo lo spettro
di Repubblica e Pd aleggiare sulle strade gremite del 13 febbraio in una fase
in cui istanze e soggetti per il resto ignorati (le donne) potevano diventare
funzionali a riconquistare “dalle piazze” un terreno altrimenti perso sul piano
della bruta maggioranza. Più peculiarmente, oggi, il fenomeno Se non ora quando? comincia a presentare
tutti i tratti di una strategia di recupero di istanze e rivendicazioni di
genere a puntello del governo Monti e delle politiche della ministra Fornero.
Come interpretare altrimenti l’invito ad una conferenza sul tema della violenza
sulle donne organizzata da SNOQ Torino di una ministra autrice di riforme
sature di violenza sociale per tutti e discriminanti nei confronti della metà
femminile del paese?
Il dato più inquietante è che, dietro
la rivendicazione da parte di SNOQ della forma “movimento” o di un qualche suo
surrogato, ciò che si cela è il tentativo di autolegittimarsi come espressione
politica di tutte le donne e conseguentemente di performare un consenso sociale
più vasto, interclassista e costruito su una artificiosa solidarietà di genere
alle politiche della ministra. Anche se tale legittimità si fonda sul
riferimento alle piazze gremite del 13 febbraio non possiamo non rilevare come
la continuità che Se non ora quando?
istituisce con quelle piazze si collochi su di un terreno né politico né
sociale, quanto piuttosto mediale, garantito dalla possibilità di accedere alla
sfera del visibile e dalla presunzione di accedervi per procura di tutte. In
altri termini, che le donne di SNOQ siano ammesse e cooptate sul terreno della rappresentazione e assunte ad emblema di tutte le altre è un dato di
fatto e una strategia politica di addomesticamento delle istanze di genere; che
la loro condizione e le loro rivendicazioni siano effettivamente rappresentative della maggioranza delle
donne (precarie, migranti, disoccupate, esodate) è una mistificazione palese.
In questo senso l’irruzione di studentesse, lavoratrici, operaie che, durante la conferenza alle OGR, hanno preso la parola per ricordare alla ministra e alle organizzatrici che il genere non costituisce un terreno sul quale siglare alleanze fra sfruttatori e sfruttati, sul quale costruire pacificazione sociale attorno all’operato del governo, è un segnale importante. Scopre il retroscena di tutti quei soggetti esclusi dalla rappresentazione emblematica; rivela come ogni interpretazione universalista e monoidentitaria delle donne (che esclude ogni loro ulteriore determinazione in termini di razza, ceto, classe, orientamento sessuale) sia fondata sulla rimozione (violenta!) delle condizioni di vita delle più svantaggiate. Denunciare che la violenza sulle donne non si attua solo fra le mura domestiche ma che lo smantellamento del welfare, la riforma del sistema scolastico, la modifica dell’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro costituiscono altrettante forme di esercizio di una violenza sociale che si accanisce in misura differenziale sui soggetti (colpendo in maggior misura le donne, i/le precari*, i/le migranti, etc) ha rappresentato una demistificazione importante delle messinscene di SNOQ. Tuttavia leggere più nello specifico l’accaduto può essere altrettanto necessario per trarne elementi di analisi e futuri orizzonti di intervento politico, a partire dalla consapevolezza che nessuno spazio di rivendicazione è neutro, omogeneo e privo di contraddizioni soprattutto quando la rivendicazione rischia di sfumare nella richiesta.
In questo senso l’irruzione di studentesse, lavoratrici, operaie che, durante la conferenza alle OGR, hanno preso la parola per ricordare alla ministra e alle organizzatrici che il genere non costituisce un terreno sul quale siglare alleanze fra sfruttatori e sfruttati, sul quale costruire pacificazione sociale attorno all’operato del governo, è un segnale importante. Scopre il retroscena di tutti quei soggetti esclusi dalla rappresentazione emblematica; rivela come ogni interpretazione universalista e monoidentitaria delle donne (che esclude ogni loro ulteriore determinazione in termini di razza, ceto, classe, orientamento sessuale) sia fondata sulla rimozione (violenta!) delle condizioni di vita delle più svantaggiate. Denunciare che la violenza sulle donne non si attua solo fra le mura domestiche ma che lo smantellamento del welfare, la riforma del sistema scolastico, la modifica dell’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro costituiscono altrettante forme di esercizio di una violenza sociale che si accanisce in misura differenziale sui soggetti (colpendo in maggior misura le donne, i/le precari*, i/le migranti, etc) ha rappresentato una demistificazione importante delle messinscene di SNOQ. Tuttavia leggere più nello specifico l’accaduto può essere altrettanto necessario per trarne elementi di analisi e futuri orizzonti di intervento politico, a partire dalla consapevolezza che nessuno spazio di rivendicazione è neutro, omogeneo e privo di contraddizioni soprattutto quando la rivendicazione rischia di sfumare nella richiesta.
Sul terreno ambiguo del lavoro
L’esigenza di reddito da parte delle
donne non è una rivendicazione nuova ai femminismi che negli anni ne hanno
sperimentato l’urgenza e al contempo i limiti e le aporie di alcune sue
possibili contestualizzazioni. Senza pretendere di ricostruirne la storia
travagliata, proviamo a confrontarci con uno degli slogan della protesta, “Una donna senza lavoro è una donna senza libertà”, per aprire spazi di problematizzazione e interrogativi su di
un terreno scivoloso come quello del lavoro. Che l’indipendenza economica sia
non solo una conquista necessaria ma anche un presupposto politico
indispensabile per affrontare la questione della violenza sulle donne è un dato
di fatto. La possibilità di rompere legami affettivi o parentali con individui
violenti spesso sfuma in mancanza di prospettive di reddito autonome. E
tuttavia che la conquista di un accesso sul mercato del lavoro (o che la
conquista delle donne al mercato del
lavoro) incarni un effettivo orizzonte di libertà è un assunto troppo
problematico per non essere ulteriormente indagato. La lotta alla violenza
sessista e intrafamiliare non può infatti rischiare di divenire apologetica
rispetto alle forme (violente) di sfruttamento e messa al lavoro delle donne
che vediamo ogni giorno intensificarsi dentro gli attuali assetti produttivi. È
vero che la richiesta di occupazione dentro congiunture di disoccupazione
massiccia o nel perdurare della segregazione al lavoro riproduttivo e domestico
spesso rappresenta una rivendicazione strumentale e transitoria ai fini di un
miglioramento della condizione delle donne. E tuttavia il dubbio, il quesito
centrale resta se tale miglioramento sia declinabile nei termini di un aut aut
fra asservimento domestico e asservimento lavorativo, fra sfruttamento
riproduttivo e nuove e conciliative forme di sfruttamento produttivo e
riproduttivo insieme. In altri termini, se una battaglia su questo terreno sia
effettivamente declinabile a prescindere da una critica più generale allo
sfruttamento capitalistico della differenza di genere nella sfera privata come
in quella pubblica; da un ripensamento più radicale della forma lavoro. Nella
consapevolezza dell’importanza di coniugare la necessità di immediati
miglioramenti delle condizioni materiali dei soggetti con prospettive politiche
a più lungo raggio, vogliamo provare ad ipotizzare come terreno del conflitto
non tanto quello del lavoro quanto quello del reddito. Un reddito che, se
indubbiamente negli attuali assetti economici transita per la vendita di sé sul
mercato del lavoro, non esclude altre forme di costruzione materiale dell’indipendenza
basate ad esempio su pratiche di riappropriazione o di socializzazione del
lavoro riproduttivo. Slegare i due termini non è un esercizio retorico;
piuttosto incarna il desiderio di pensare linguaggi e rivendicazioni per le
donne che non siano apologetici rispetto ad altri, trasversali, dispositivi di
produzione delle ineguaglianze sociali, che possano costituire un terreno di
confluenza per la molteplicità delle questioni in gioco e degli attori sociali
in campo, nella consapevolezza che nessun miglioramento delle condizioni di
vita delle donne è pensabile al di fuori di una trasformazione dei rapporti di
classe in cui esse risultano calate.
Fra le insidie del dialogo
"Queste donne mi hanno rappresentato in maniera civile i loro
problemi di lavoro nelle fabbriche ponendomi delle domande come ministro del
Lavoro e come ministro delle Pari opportunità. Ho preso nota attentamente, sono
un ministro che valorizza molto il dialogo in qualunque occasione. Certo non
posso parlare con tutti e tutte, però credo che il dialogo sia una cosa
positiva e lo è stato anche in questo caso".
Un luogo
comune spesso acriticamente introiettato rappresenta quello del dialogo come
uno spazio di risoluzione partecipata del conflitto basato su di un
imprescindibile riconoscimento minimo dell’alterità e contrapposto alla
violenza. Alla studentessa che ne contestava l’operato la ministra Fornero ha
rivolto accuse di non democraticità, invitandola al dialogo, cioè a distribuire
equamente fra entrambe gli spazi della presa di parola. Tuttavia che questa
apertura alla reciprocità della comunicazione abbia instaurato uno spazio di
intersoggettività egualitaria è più che un’illusione, è esplicita menzogna:
“L’uguaglianza di parola è fondata sulla disparità di cultura, condizione, potere,
fortuna” scriveva Blanchot, e difficilmente si potrebbero trovare parole più
adatte a descrivere le asimmetrie degli attori in campo. Asimmetrie che, se per
lo più regolano l’accesso allo spazio del discorso, possono eventualmente
avvalersi di una sua distribuzione più ampia senza perciò distribuire il
monopolio della sua organizzazione e della mediazione fra le parti – ragione
per la quale le strade hanno da sempre rappresentato il luogo di una presa di
parola autonoma piuttosto che concessa! La risoluzione dialogica di una
contestazione non solo costituisce un'illusoria mediazione alla pari ma risulta addirittura funzionale alla
celebrazione della magnanimità democratica di quello che era il suo obiettivo
critico! Dentro lo spazio dialogico e senza grinze dello spettacolo di Se non ora quando? la rimozione di ogni
differenza in nome dell’unità del genere riesce a recuperare tutto, a mettere
tutte in connessione e la rappresentazione sembrerebbe richiudersi anche su chi
desiderava interromperla. Naturalmente questo è quanto i media meanstream
restituiscono in accordo con la narrazione di una (quella egemone) delle parti
coinvolte. E tuttavia questo apre imprescindibili scenari di riflessione su
quanto si concede alla controparte in termini di recupero delle proprie
istanze! Il rifiuto del confronto dialogico come plausibile spazio di
rivendicazione non è ideologico né aprioristico ma fondato su di un’asimmetria
reale che si rende tangibile nelle asimmetriche possibilità di accesso alla
rielaborazione e narrazione del confronto. Il rifiuto dello spazio del discorso
non è violento più di quanto non lo sia l’egemonia insita nel confronto verbale
col potere. Il ricatto del confronto (pena l’accusa di anti-democraticità e
violenza) è spesso solo una delle tante strategie di assimilazione del
conflitto contro le quali le piazze e la possibilità di una presa di parola
autonoma continuano a restare percorsi attuali e percorribili.
concordo sicuramente con questo estratto dell'articolo..su qualche altra frase che impone una narrazione che non parte dalle partecipanti ma dalle letture giornalistiche...un po' meno...e allora parto dall'autonarrazione: io NON manifestavo come studentessa (che non sono) MA come DONNA, che ha fatto un percorso politico all'interno di uno spazio collettivo di conflitto e confornto...per arrivare a prendere coscienza e poi parola.. la rete donne Fiom, così come il colletitvo di cui faccio parte e che ha un nome, e si chiama collettivo altereva, non sono semplici appartenenze ma portano con sè analisi e pratiche e il rischio di metterci la faccia. Ora trovo che l'unica pratica davvero femminista in questo caso sarebbe il darci parola, chederci il perchè e il cosa. Non supporlo per ataviche rivalità unilaterali o desumerlo dalla lettura di giornali ormai parziali e attenti solo al folclore. E' ovvio che nel "dialogo" con la Fornero non ci fosse nulla che vagamente assomigliasse all'equilibrio...MA nemmeno nel post Fornero. L'obiettivo di molte politically correct a Torino ora è la pressione e l'esclusione di altereva dallo spazio pubblico. E, questo dato che prevede un processo di demolizione e mistificaizone, è il simbolo di quel non equilibrio. Di queste modalità del "potere "..anche di queste vorrei parlare...
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